George DeWolfe e gli stati di vuoto e tranquillità della contemplazione del mondo
|“Nella primavera del 1986 ero nella biblioteca del college per preparare alcuni appunti per una conferenza. Era sera tardi ed ero rimasto solo, fatta eccezione per il bibliotecario.
All’altra estremità del lungo tavolo, dove ero seduto, c’era un grande libro a brandelli. Alla fine la curiosità ha avuto la meglio e sono andato a vederlo. Il titolo, il Tao della pittura, era intrigante per me, in quanto avevo già letto l’antico Tao Te Ching, uno dei testi sacri delle grandi religioni.
Appeno ho letto l’introduzione e il primo capitolo è successa una cosa strana: ho iniziato a sostituire la parola pittura con fotografia. Avevo tra le mani la storia, e la tecnica, di un gruppo di artisti che stavano cercando di fare la stessa cosa con cui mi misuravo io con la macchina fotografica, ma 1500 anni fa, con un bastoncino di inchiostro nero, acqua, un pennello e carta. Ma non era tanto la tecnica a sembrare simile, quanto i semplici strumenti utilizzati per produrre immagini in bianco e nero del paesaggio e l’ispirazione che questi pittori traevano dal Tao Te Ching. E’ stato il cambiamento di paradigma di cui avevo bisogno per realizzare la sintesi della percezione visiva di superficie ed un’espressione più profonda dei misteri della natura, cui si accede attraverso la consapevolezza”.
Il vuoto diviene il tema principale. L’artista prima calma la mente, facendola diventare silenziosa e vuota di pensieri ed emozioni: si tratta della pratica secolare della “pienezza della mente”. In questo stato di vuoto e tranquillità, l’ispirazione scorre tranquilla crea un senso di relazione tra le cose del mondo. Questa pratica permette poi all’artista di dipingere, con mano rilassata, pennellate naturali. È un atto combinato di spontaneità ed autenticità.